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Amalia Ercoli Finzi,prima ingegnera aeronautica della storia d’Italia, racconta le sfide di una carriera dedicata allo spazio, vincendo il patriarcato della famiglia di origine
«cum ad naturam eximiam atque inlustrem accesserit ratio quaedam conformatioque doctrinae, tum illud nescio quid praeclarum ac singulare solere exsistere». Le parole di Cicerone condensano l’essenza di Amalia Ercoli Finzi: «Quando a un’indole nobile e ricca di talento si aggiunge un metodico indirizzo scientifico, allora il vero genio si manifesta». E lo fanno in quel latino che ha imparato ad amare sui banchi del liceo scientifico in provincia di Varese e che ancora oggi la accompagna nelle sue letture serali, dopo giornate dedicate alla scienza.
Classe 1937, Amalia Ercoli Finzi, prima laureata italiana in ingegneria aeronautica quando fra 650 iscritti le donne erano solo cinque, si è dedicata alla ricerca e all’insegnamento al Politecnico di Milano ed è con il tempo diventata consulente dell’Asi, dell’Esa e della Nasa per diverse missioni spaziali. Medaglia d’Oro per meriti scientifici e Grande Ufficiale Ordine al merito della Repubblica Italiana, nel 2018 l’International Astronomical Union le ha dedicato l’asteroide 24890 Amaliafinzi e nel 2021 l’Esa ha dato il suo nome, Amalia, al Ground Test Rover della missione ExoMars.
Oggi è impegnata in un’opera di divulgazione e viaggia per incontrare i giovani e accendere in loro la curiosità e la passione per le materie Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), perché nel nostro Paese i laureati in queste discipline sono ancora solo il 27% del totale e fra questi meno di 4 su 10 sono donne. Così la professoressa Ercoli Finzi testimonia il suo «si può fare» con la sua storia personale.
L’infazia dolorosa e patriarcale
«Ho avuto un’infanzia dolorosa perché era tempo di guerra e noi bambini vivevamo con ansia per il clima plumbeo e la paura, senza che avessimo colpa di ciò che stava succedendo. Mio padre era un partigiano di supporto in un paesino vicino a Varese e nascondeva i soldati che disertavano o gli alleati. A mezzogiorno venivamo mandati noi bambini a portare loro il pranzo nei nascondigli perché i soldati tedeschi non ci avrebbero fermato. Quando, però, incontravamo qualcuno in grigio-verde la paura ci scuoteva dentro come una scossa», racconta Ercoli Finzi, seduta sul divano del suo studio a pochi passi dal Polimi. Ricorda tutto di quel periodo e racconta con estrema sincerità la famiglia in cui è vissuta: «La mia era una famiglia tradizionale, cattolica osservante e patriarcale. Mio padre comandava e noi figli obbedivamo e mia mamma gli dava sempre ragione. Era un contesto severissimo, ma in famiglia avevamo la fortuna che contasse la cultura e questo ha portato a farci studiare nonostante fossimo di ceto borghese».
Ercoli Finzi ha vissuto la guerra, ma anche la liberazione: «Ero in seconda elementare, erano le 10 del mattino e mi ricordo che è suonata la campanella e ci hanno mandati tutti a casa, con tanta incoscienza. Eravamo piccoli e mentre camminavamo per le strade sentivamo i rumori dei carri armati che stavano arrivando». Il 25 aprile porta con sé un’aria nuova e alle paure e ai dolori della guerra si sostituiscono le preoccupazioni di una bambina che a scuola va meglio di molti compagni: «Sono sempre stata brava e questo ha fatto sì che mi bullizzassero. Hanno cominciato alle elementari e poi continuato fino al liceo, quando eravamo solo cinque ragazze su 52 studenti e in molti non sopportavano che io avessi i voti migliori. Ma io sono andata avanti per la mia strada, mi sono diplomata con il massimo dei voti e ho ricevuto la lettera di complimenti del ministro perché sono risultata la più brava in Italia» ricorda, spiegando poi la scelta di ingegneria.
Studi universitari “atipici”
«Sono una donna del fare, dalle materie astratte devo poi arrivare al concreto. Mio padre non era d’accordo, ma un professore di matematica, che era anche un prete, gli disse che ero portata per le scienze e così mi permise di iscrivermi al Politecnico, ma mi disse: ricordati che devi finire in cinque anni».
All’università l’incontro con il futuro marito, Filiberto Finzi, figlio del già rettore del Politecnico di Milano, Bruno Finzi, e fratello del professore di Scienza delle costruzioni, Leo Finzi. La scelta dopo la laurea fu influenzata dalla famiglia di lui, che «considerava la ricerca più adatta alle donne». Inizia così nel 1962 una carriera accademica che la vedrà diventare professoressa ordinaria solo nel 1994, ben 32 anni dopo. «I primi 15 anni della mia carriera sono stati penalizzati dalla famiglia, mi sono occupata dei miei cinque figli», sottolinea la professoressa, che aggiunge: «Poi ho avuto la fortuna che un collega sia andato in pensione e mi hanno affidato meccanica aerospaziale, che di spaziale non aveva proprio niente. Ho ribaltato il corso e avviato meccanica orbitale».
La “lenta” carriera accademica
Il primo razzo sonda sparato dal Polo, lo studio dei fluidi immiscibili in caduta libera, la dinamica della stazione spaziale, le simulazioni in laboratorio. Anni intensi, in cui però non si è mai allontanata dall’Italia per la famiglia. «Gli studi di cui mi occupavo erano all’avanguardia e si potevano portare avanti con i confronti con esperti internazionali che offrivano i concorsi. Sono andata dal Polo Nord al Polo Sud, perché ai congressi si discute di ricerca e ci si confronta con altri che stanno affrontando le stesse difficoltà e si dibattono le possibili soluzioni».
Negli anni ha firmato oltre 200 pubblicazioni, esperimenti e studi per arrivare nei primi anni 2000 alla responsabilità di principal investigator, responsabile dello strumento SD2 sulla sonda spaziale Rosetta, un progetto tutto europeo che ha messo al tavolo le menti migliori dei diversi Paesi. Iniziato nel 2004, il progetto aveva l’obiettivo di studiare l’origine delle comete e le relazioni tra la loro composizione e la materia interstellare, per meglio comprendere l’origine del sistema solare. «Nel 2014 la sonda è arrivata sulla cometa ma non si è ancorata perché non hanno funzionato gli arpioni, di fattura tedesca, ed è rimbalzata a una velocità di soli quattro centimetri al secondo inferiore alla velocità di fuga, terminando sul bordo. È quello che in termini scientifici si definisce un colpo di culo», ride Ercoli Finzi che sa come usare l’ironia per sdrammatizzare anche i momenti più intensi. Poi i comitati, come rappresentante italiana per lo spazio, del progetto Horizon 2020. «Adesso c’è la Luna e poi c’è Marte. Nel primo caso è già partito il programma Artemis, che porterà l’uomo sulla Luna. Per Marte sono coinvolta nel programma ExoMars, che non è partito per la guerra in Ucraina. Ma non riuscirò a vedere tutto», chiosa la professoressa, che si ritiene soddisfatta di quanto fatto perché «in questi campi se si fa qualcosa di buono lo si fa per l’umanità».
Le altre passioni
In realtà sarebbero necessarie ancora una manciata di vite perché Amalia Ercoli Finzi possa realizzare tutte le sue passioni: «Nella prossima diventerò una pianista. Suono il piano per diletto mio e disperazione degli altri. Nella terza vita sarò invece un’architetta dei giardini perché i fiori e le piante mi amano. Perché ognuno di noi ha diversi talenti e ogni talento è una responsabilità grande, verso se stessi e verso la società».
Il messaggio per le giovani
Il messaggio è soprattutto per le ragazze. La professoressa, memore di tutte le volte che si è sentita ripetere «Non sono cose da donne», avverte le giovani: «Dovete sapere che incontrerete un mondo ostile, ma allo stesso tempo sappiate che potete fare tutto ciò che volete».
Lei ha sovvertito il modello con cui è cresciuta e senza avere modelli da seguire: «Gli esempi di donne che avevo erano due: chi aveva successo nella carriera e aveva sacrificato completamente la parte affettiva; e chi invece in famiglia era riuscita benissimo ma aveva subito il fatto di non poter far carriera, come le mie cognate tutte laureate e tutte ottime madri di famiglia», ricorda la professoressa, che da ragazza non voleva sposarsi «con tante cose belle che ci sono da fare e da vivere».
Ora, invece, ritiene che la formula per riuscire sia quella dei tre metalli: una salute di ferro, nervi d’acciaio e un marito d’oro. Per questo avverte: «Non innamoratevi del primo che capita, cercate di capire bene la persona a cui affidate i vostri sogni». Perché le donne, a suo avviso, hanno tre dimensioni da coltivare: affettiva, professionale e una vita propria, dedicata a realizzare le proprie passioni.
Il talento è una responsabilità sociale
Durante la conversazione la professoressa sfoglia mentalmente l’agenda dei prossimi impegni, tanti e in città diverse. «Ogni età ha le sue responsabilità. La mia ora è quella di portare un messaggio alle giovani e ai giovani: il futuro sarà bellissimo nella misura in cui tutti contribuiranno a costruirlo. Voi siete il nostro capitale, il nostro futuro, quello su cui investiamo. Ogni persona è un universo con una quantità di doti e una ricchezza interiore inimmaginabile e genitori e insegnanti sono lì per concorrere alla sua crescita, ma senza impegno non si fa niente, il sudore è indispensabile. Ricordatelo».
Monica D'Ascenzo - Il Sole 24 Ore